Capitolo sesto
Il caso ENIMONT

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capitolo primo ed indice | capitolo secondo | capitolo terzo | capitolo quarto | capitolo quinto | capitolo sesto | capitolo settimo | appendici e conclusioni | bibliografia


 

CAPITOLO SESTO

IL CASO "ENIMONT"

 

 

6.1 INTRODUZIONE

6.2 L'AFFARE "ENIMONT"

6.3 IL PROCESSO CUSANI

6.4 IL PROCESSO ENIMONT

 

 

6.1 INTRODUZIONE

La storia di Tangentopoli è stata e sarà caratterizzata da numerose inchieste che porteranno alla luce i misfatti di oltre 40 anni di cattiva gestione politica del nostro Paese.

Ho scelto l'inchiesta relativa alla maxi tangente Enimont perchè ritengo sia quella che meglio illustra i meccanismi della corruzione ambientale del sistema Italia; essa, per la prima volta, ha permesso di giudicare un'intera classe politica, smascherandone i loschi affari con spregiudicati imprenditori, faccendieri, finanzieri. Nel giro di pochi mesi ha dato vita ad un primo processo contro un unico imputato, Sergio Cusani, condannato a 8 anni di carcere, e ha obbligato i massimi esponenti della politica italiana a spiegare, davanti a milioni di italiani, i loro modi di gestione del potere politico. Terminato il processo Cusani, è iniziato il processo Enimont in cui i politici non hanno più partecipato in qualità di testimoni, bensì come imputati successivamente condannati per i reati a loro ascritti.

A tal proposito bisogna evitare un errore concettuale. Spesso, durante il processo, si parlò del reato di illecito finanziamento ai partiti e non propriamente di corruzione o concussione. In realtà i due reati sono strettamente collegati; non lo sarebbero se i politici avessero accettato i contributi illegali senza dare nulla in cambio, in realtà l'illecito finanziamento altro non è stato che il costo, sostenuto da Raul Gardini, per avviare un rapporto di corruttela con le forze politiche del Paese, al fine di ottenere da queste determinati benefici.

 

6.2 L'AFFARE "ENIMONT"

L'Enimont ha rappresentato il polo chimico italiano nato dalla fusione della Montedison con l'Eni. L'accordo che ha dato vita a questo progetto è stato preceduto da decenni di lotte che hanno interessato, nel bene e nel male, le vicessitudini del nostro Paese.

Il 4 dicembre 1987 Raul Gardini assunse la presidenza della Montedison e nel 1988, su autorizzazione del Governo presiduto da Ciriaco De Mita, unitamente al presidente socialista dell'Eni, Franco Reviglio, studiò un piano di fattibilità per una joint-venture tra Montedison ed Eni. L'obbiettivo era quello di costituire un colosso di dimensioni mondiali, definito "polo chimico italiano", che avrebbe riunito il meglio dei due gruppi. Le reazioni furono tutte di segno positivo e tutti ne parlarono come di un affare importante per il Paese.

Nell'aprile 1988 Sergio Cragnotti, finanziere amico di Raul Gardini, si dedicò all'individuazione dei beni da far confluire in Enimont e dopo un primo parere favorevole all'intesa, espresso dal Governo tramite la Commissione Attività Produttive, il 16 maggio dello stesso anno venne messo a punto il memorandum d'intenti per le integrazioni delle attività chimiche dei due gruppi. In base agli accordi iniziali il capitale Enimont era così suddiviso: 40% al gruppo Ferruzzi, 40% all'Eni, 20% collocato in Borsa. Nessuna delle due parti avrebbe potuto acquistare il flottante oltre quel 10% che avrebbe dato la maggioranza assoluta.

Il 29 luglio 1988 le due parti comunicarono di aver raggiunto un accordo di massima e la giunta dell'Eni diede via libera, con una delibera, agli accordi di principio. Il primo problema importante da risolvere fu quello fiscale, infatti la Montedison, che ottenne in base agli accordi una forte plusvalenza, avrebbe dovuto pagare circa 1000 miliardi d'imposta. Per evitare ciò occorreva un intervento del Governo che con un decreto legge stabilisse ad hoc l'esenzione, ed il presidente del Consiglio De Mita, il ministro del Bilancio Rino Formica e il ministro delle Finanze Emilio Colombo si impegnarono personalmente a tal proposito reiterando tre volte il decreto. Nel dicembre 1988 Gardini venne anche ricevuto dal Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che lo rassicurò sulla rapida approvazione del decreto per la defiscalizzazione. Gardini, tranquillizzato dall'autorevole intervento presidenziale, affrettò i tempi e firmò la Convenzione senza attendere l'approvazione del decreto legge che avvenne solo il 12 maggio 1989.

A questo punto sorse un altro problema derivante da scontri interni a Enimont sugli organigrammi ed in particolare il presidente dell'Anic, Antonio Sernia, grande difensore della chimica pubblica, diede inizio ad una vera e propria guerra interna. Incurante di ciò Gardini, nel giugno 1989, fece capire che entro il 1992 voleva acquisire il controllo di Enimont, ma Reviglio reagì in modo negativo e negli ambienti politici cominciarono a levarsi voci contrarie a Gardini, primo fra tutti Paolo Cirino Pomicino diventato ministro del Bilancio, inoltre apparve chiaro che il Parlamento non avrebbe tramutato in legge il decreto sulla defiscalizzazione e Pomicino dichiarò che nella reiterazione del decreto ci sarebbero state precise clausole che impedivano a Montedison di acquisire la maggioranza. Fu a questo punto che Gardini capì di dover "ungere" le ruote del sistema dei partiti e chiese, a tal proposito, alla propria struttura finanziaria di reperire circa 12 miliardi che, in base alla testimonianza di omissis, ex amministratore delegato di Montedison, sarebbero dovuti andare in prevalenza a Dc, Psi, e Pci.

In quel periodo i contrasti tra i contendenti aumentarono tanto che in agosto intervenne per la prima volta a livello ufficiale Mediobanca che, sotto la regia di Enrico Cuccia, suggerì a Eni e Montedison di firmare una lettera che prevedeva in caso di disaccordo sulla gestione della joint-venture le modalità di una futura divisione di Enimont. La lettera però non fu firmata anche per i contrasti sempre più forti tra Gardini e Cuccia.

Il 27 settembre 1989 la Camera dei Deputati bocciò il decreto legge sulla defiscalizzazione facendo andare su tutte le furie Raul Gardini. Nonostante queste condizioni poco favorevoli il titolo Enimont esordì in Borsa il 3 ottobre ed il 20% del flottante fu collocato sul mercato al prezzo di 1420 lire per azione e nel giro di un'ora tutte le azioni furono sistemate con un numero di adesioni superiore di sette volte all'offerta (280.000 nuovi azionisti, dei quali 30.000 stranieri).

Ai primi d'ottobre del 1989 cominciarono ad arrivare alle redazioni dei quotidiani documenti con indicazioni molto negative sull'andamento dei conti della joint-venture e ciò venne interpretato come una manovra destabilizzante conseguenza di una guerra ormai dichiarata all'interno di Enimont tra i manager pubblici e quelli privati. Nel frattempo cadde il Governo De Mita e subentrò a Palazzo Chigi Giulio Andreotti. Il 9 dicembre 1989 vi fu una grande agitazione sui mercati finanziari perchè voci insistenti riferivano di un'operazione di rastrellamento in atto sul flottante e i sospetti caddero su entrambe le parti. Solo verso la fine di febbraio 1990 si cominciò a capire che dietro il rastrellamento occulto delle azioni Enimont sul mercato c'era Gardini che, negli ultimi mesi del 1989, era riuscito a conquistare il 51% della società, operazione effettuata principalmente dal finanziere svizzero Pini Berlini e dai finanzieri Gianni Varasi e Jean Marc Vernes. Ovviamente l'Eni non accettò questa mossa e in vista dell'assemblea convocata per il 27 febbraio, nella quale si doveva deliberare sull'aumento del numero dei consiglieri, presentò un ricorso al Pretore di Milano perchè sospendesse con provvedimento urgente l'assemblea. Il ricorso venne respinto e si aprì così una nuova lotta tra le parti. Il presidente dell'Eni, Gabriele Cagliari, dichiarò che l'Eni era disposta ad acquistare la quota Montedison, Gardini chiese un aumento di capitale di 10.000 miliardi proponendo il conferimento in Enimont di attività importanti come Himont, Ausimont e Sir e dichiarò che Montedison avrebbe garantito la sottoscrizione di tutta la quota qualora l'Eni non avesse voluto aderire. Il piano di sviluppo proposto da Gardini suscitò grandi preoccupazioni al potere politico che non avrebbe mai accettato di perdere la chimica, serbatoio di voti e denari.

Il 6 marzo 1990 il presidente Cagliari respinse il piano di Gardini e disse che l'Eni era disposta a comprare la quota Montedison e che l'ente di Stato poteva garantire una gestione efficiente delle società chimiche. Una settimana dopo la Montedison chiese l'arbitrato su Enimont e Gardini pronuciò, intervenendo alla Confindustria, un discorso storico per lo sviluppo dell'intera vicenda:

"L'interesse pubblico non è e non può essere l'interesse della mano pubblica. Interesse pubblico è solo il rispetto dell'impegno assunto con i risparmiatori italiani e stranieri. Non è il mercato che è andato nello Stato ma lo Stato che, sapendolo e volendolo, è andato nel mercato."

La Confindustria, tramite il suo presidente Sergio Pininfarina, scese in campo è appoggiò apertamente il progetto di Gardini.

Giulio Andreotti dichiarò di ritenere illegittima l'assemblea Enimont con cui si decise l'ingresso di due nuovi consiglieri (omissis e Marco Vitale) portando il numero complessivo a 12 ed il Governo, con il parere favorevole dell'Avvocatura dello Stato, ricorse in tribunale. Il 20 aprile 1990 il collegio dei periti nominati dal tribunale di Milano rese nota la valutazione sulle società Montedison che avrebbero potuto essere cedute a Enimont fissando la cifra a 5.500 miliardi. Ma la maggior parte dei politici si schierò contro la privatizzazione ed anche il Pci chiese che l'Enimont passasse interamente all'Eni. Riusultava ormai inevitabile lo scioglimento della joint-venture.

Di fondamentale importanza fu la direttiva imposta dal Cipi sulla vicenda Enimont. Essa prevedeva la unitarietà del gruppo da parte di chi avrebbe acquistato il 40 per cento, l'acquirente doveva garantire fino al 1 gennaio 1993 che il 51% delle azioni restasse in mani italiane e doveva inoltre impegnarsi ad attuare il piano di sviluppo già indicato sin dal 1988, sia sotto il profilo industriale che occupazionale; chi non rispettava queste regole avrebbe dovuto pagare una penale del 10 per cento. Inoltre erano stati previsti impegni precisi per investimenti nel Mezzogiorno, Sicilia e Sardegna, e per risolvere delicate questioni ambientali come quelle dell'Acna di Cengio e dell'Enichem di Manfredonia.

Montedison doveva decidere se accettare o meno l'inserimento nel contratto di vendita di tutte le condizioni fissate dal Cipi e nella seconda ipotesi avrebbe automaticamente ceduto il suo 40% all'Eni. Se invece avesse accettato le condizioni, l'Eni avrebbe dovuto indicare il prezzo di vendita in base al quale la Montedison avrebbe dichiarato se accettava di vendere o di acquistare.

Il 9 novembre 1990 Diego Curtò, presidente vicario della prima sezione civile del Tribunale di Milano, depositò una sentenza di fermo provvisorio delle azioni Enimont di proprietà Eni e Montedison e designò custode provvisorio l'avvocato Vincenzo Palladino. Il 19 novembre 1990 il ministro delle Partecipazioni Statali, Piga, autorizzò l'Eni ad inviare l'offerta di acquisto/vendita con una cifra complessiva tra i 2700 e i 3000 miliardi. Gardini e Cragnotti erano del parere di comprare mentre Garofano, omissis e Italo Trapasso, responsabile della chimica Montedison, di vendere. Il 22 novembre 1990 il gruppo Ferruzzi annunciò la cessione della propria quota di Enimont al prezzo di 1.650 lire ad azione, pari a 2.805 miliardi e la decisone di Raul Gardini di dimettersi dalla presidenza della Ferruzzi Finanziaria. I motivi che indussero Gardini a vendere furono i vincoli sulla nazionalità solo italiana dei soci di maggioranza, l'inalienabilità dei cespiti, la richiesta di adesione ad un meccanismo arbitrale che sottraeva all'imprenditore decisoni che sono di sua sola pertinenza e l'elevata quotazione offertagli. omissis, dopo il suo incontro con Piga, affermò: "Montedison ha avuto un prezzo giusto, Eni ha vinto una battaglia di potere, l'Italia ha perso una straordinaria opportunità.".

I sospetti che hanno portato la magistratura ad indagare e a scoprire la maxi tangente sono nati proprio dal fatto che il Governo ha accettato di liquidare il socio privato con la cifra altissima di 2.805 miliardi che consentì a Gardini di ripagare i partiti con un ringraziamento in termini economici. Lo stesso Gardini si rese conto di aver bisogno di circa 100 miliardi, una cifra che salì però a 135-150 miliardi secondo le previsioni che Sergio Cusani riportò dopo un giro di ricognizione tra le forze politiche. Sergio Cusani si rivolse ad un immobiliarsta romano, Domenico Bonifaci, per formare la cosidetta "provvista", quei 142 miliardi in nero che servirono a Raul Gardini per sbloccare la vicenda Enimont. La "provvista Bonifaci" era costituita da titoli di Stato, in seguito monetizzati dallo IOR.

La classe politica ricevette tangenti dal gruppo Ferruzzi in tre occasioni: per la defiscalizzazione nel 1989, per lo scioglimento della joint-venture nel 1990 e 1991, per le elezioni politiche del 5 aprile 1992 ed il protagonista principale che diresse i pagamenti fu proprio Sergio Cusani, l'unico in grado di dirottare ingenti somme di denaro ai politici, ai manager, ai portaborse, al vertici dell'Eni e agli stessi membri della famiglia Ferruzzi.

Da qui la nascita del primo processo sul caso Enimont che vide come unico imputato Sergio Cusani e che permise di trasformare i principali politici della Prima Repubblica da testimoni ad imputati nel successivo processo.

(Pamparana A., 1994 pp. 5-17)

 

6.3 IL PROCESSO CUSANI

Quello a Sergio Cusani è stato definito "il padre dei processi di Tangentopoli per la madre di tutte le tangenti"; oltre 153 miliardi spartiti dopo il fallito tentativo di fusione tra polo privato e mano pubblica nella chimica italiana. Il processo cominciò il 28 ottobre 1993 ed il dibattimento durò sei mesi esatti per un totale di 51 udienze, 400 ore di dibattimento, 117 testimoni (la maggior parte indagati di reato connesso) tra cui due ex presidenti del Consiglio, Craxi e Forlani, e 7 ministri nella Prima Repubblica. Furono compilate 20.000 pagine di documenti e 7.000 pagine di verbali.

Quanto segue è stato tratto direttamente da registrazioni audio visive effettuate durante le udienze, per tanto le dichiarazioni dei protagonisti sono tratte dalla loro viva voce. Nello svolgimento del mio lavoro ho fatto riferimento ai commenti del giornalista Andrea Pamparana, registrati in due videocassette titolate "Il Processo alla Prima Repubblica", supporto integrativo al supplemento di "Epoca" n° 20 del 15 maggio 1994.

Dal 28 ottobre al 23 dicembre 1993 l'imputato unico Sergio Cusani restò in carcere e non presenziò alle udienze del processo. Entrò in aula per la prima volta da uomo libero in attesa di giudizio il 4 gennaio del 1994 e le accuse mossegli dal pubblico ministero Antonio Di Pietro erano le seguenti:

a) Falso in bilancio, per aver stornato dalle casse della Montedison circa 170 miliardi in diverse occasioni senza registrare il tutto nei bilanci societari.

b) Appropiazione indebita, per essersi tenuto parte dei soldi.

c) Violazione alla legge sul finanziamento pubblico ai partiti, per aver dato parte dei soldi a esponenti politici.

Il primo testimone utile alla ricostruzione della storia della maxi tangente fu il finanziere Giuseppe Berlini che per anni gestì i fondi neri del gruppo Ferruzzi e dalle cui casse uscirono svariati miliardi in nero utilizzati successivamente da Cusani e da altri manager del gruppo.

Nel 1987 il Governo presieduto da Ciriaco De Mita promise a Gardini un forte sgravio fiscale sulle plusvalenze della Montedison nell'affare Enimont.

BERLINI: "Gardini disse che, siccome si prevedeva che il decreto avrebbe incontrato in fase di approvazione in Parlamento delle difficoltà da parte dei politici, sarebbe stato necessario forse oliare un pò il sistema dei partiti con delle dazioni di denaro. Mi disse che Cusani mi avrebbe dato certe istruzioni per un approvvigionamento di denaro da fare sempre estero su estero."

Cusani non agì da solo, per Di Pietro i suoi complici furono Giuseppe Garofano e omissis. Il primo fu presidente della Montedison fino al gennaio 1993 ed una volta coinvolto nell'inchiesta Mani Pulite, per versamenti illeciti alla Democrazia Cristiana, si nascose per alcuni mesi all'estero. Quando rientrò in Italia diede via all'intera inchiesta su Enimont grazie alle sue confessioni.

GAROFANO: "Gardini mi comunica che ha una necessità di trovare disponibilità dell'ordine di un centinaio di miliardi finalizzati ad un sistema di dazioni di denaro a politici, che servivano appunto per questo meccanismo di accreditamento. Gardini mi disse che l'incarico di natura professionale per questo tema era stato dato a Cusani il quale lo aveva accettato. Il ruolo che mi ha riguardato è stato quello di partecipare insieme a Cusani, che poi ha avuto l'idea di costruire l'operazione immobiliare, all'esecuzione di questa operazione. Mi consenta di precisare che il mio ruolo è stato quello di prendere atto che non esisteva alternativa possibile, e non mi sono opposto a questa operazione."

omissis, cognato di omissis, diventò nel 1993 amministratore delegato del gruppo Ferruzzi e le sue rivelazioni al processo provocarono non pochi problemi ai politici. Del tutto inaspettata fu la dichiarazione con cui non escludeva che anche la Lega Nord avesse percepito del denaro in nero per la campagna elettorale del 1992.

OMISSIS: "Il dottor Gardini sulla chimica aveva un grande progetto industriale. All'epoca, sulla chimica, investì tutte le sue risorse e fece quanto era nelle sue possibilità per tentare di realizzare questo progetto. Certo è che il dottor Gardini decise insieme a noi, e noi tuttti condividemmo questa scelta, che bisognava, se ci avessero lasciato comprare o vendere, "calmierare" i partiti del Governo."

Giustamente Di Pietro chiese a omissis perchè avessero ritenuto nuovamente necessario "calmierare" i partiti quando già in precedenza ciò era stato fatto senza ottenere alcun risultato, ed in particolare si riferiva alla mancata conversione in legge del decreto sulla defiscalizzazione. omissis rispose che non avrebbero fatto lo stesso errore due volte e che non avrebbero pagato una lira finchè non si fosse trovato una soluzione al problema. Il pubblico ministero domandò anche se si fossero mai chiesti chi bisognava ingraziarsi e omissis cominciò a fare un elenco piuttosto dettagliato dei principali beneficiari della provvista che quantificò in Lit. 135.140.000.000:

Prospetto 6.1

 

Cusani era stato delegato a consegnare questi soldi mentre le quantità da dare a ciascun personaggio e la scelta dei destinatari erano state stabilite da Gardini su proposta di Cusani.

Al processo parteciparono, in qualità di testimoni, anche i politici che per l'accusa incassarono parte della maxi tangente. E' così che il processo contro il finanziere Sergio Cusani si è trasformato nel processo ad un'intera classe politica vecchia ed in parte nuova. E' importante sottolineare che, nonostante i numerosi scontri verbali tra accusa e difesa durante le udienze, sia Di Pietro che l'avvocato Giuliano Spazzali, difensore di Cusani, hanno trovato un punto di accordo nel cercare di dimostrare, mediante le loro domande ai testimoni, che i politici non potevano non sapere dell'illecito finanziamento ai partiti e non potevano negare la loro partecipazione, diretta o indiretta, alla spartizione della maxi tangente.

Severino Citaristi, ex cassiere nazionale della Dc con 64 avvisi di garanzia a suo carico, partecipò al processo in qualità di testimone e, oltre ad ammettere l'illecito finanziamento da parte della Montedison, dichiarò che anche i segretari politici De Mita e Forlani erano a conoscenza della provenienza illegale di gran parte delle entrate del partito.

CITARISTI: "Gardini mi diede appuntamento al Grand Hotel di Roma e disse che voleva dare un contributo al partito in vista delle elezioni politiche e avrebbe versato volentieri due miliardi. Io ho informato De Mita subito dopo l'incontro con Gardini e lui ha preso atto della proposta."

DI PIETRO: "Che vuol dire ha preso atto; ha detto di si o ha detto di no? Li prendiamo o non li prendiamo questi soldi?"

CITARISTI: "Non mi ha detto di no."

L'ex ministro Paolo Cirino Pomicino fu convocato due volte dal Presidente Tarantola e, dopo aver elencato i suoi 14 avvisi di garanzia ricevuti da varie Procure, ricordò le fasi dell'affare Enimont quando era Ministro del Bilancio e i suoi incontri con omissis e Gardini. Ammise inoltre di aver ricevuto circa 5 miliardi in CCT, monetizzati in seguito dall'imprenditore napoletano Ambrosio.

CIRINO POMICINO: "Nella metà del '91 io ricevo di nuovo la visita del dottor omissis che mi spiega i motivi dell'allontanamento del dott. Gardini dalla famiglia. In quella occasione mi disse anche in maniera molto velata che la famiglia Ferruzzi avrebbe voluto farsi carico degli impegni finanziari per la campagna elettorale mia e dei miei amici, che si sarebbe svolta da lì a qualche mese. Per quanto mi riguarda, in quell'occasione l'unica persona che si offì per dare un sostegno finanziario alla campagna elettorale mia e dei miei amici fu il dottor omissis. Io dissi al dott. omissis che la campagna elettorale non era vicinissima e lui disse che era bene prepararsi per tempo."

Dopo aver monetarizzato i 5 miliardi in CCT, tramite l'intervento in buona fede di Ambrosio, l'ex ministro ne fece la seguente suddivisione: parte a Salvo Lima per le esigenze del partito in Sicilia, parte a 6 candidati suoi amici e parte ad altri 6 candidati della circoscrizione Napoli-Caserta.

Il politico che si trovò più in difficoltà di fronte alle domande dell'accusa e della difesa fu l'ex segretario politico della Dc Arnaldo Forlani. La sua fu una difesa poco convincente, basata molto spesso sull'elusione alle domande del pubblico ministero. Più volte Di Pietro cercò di fargli ammettere che, essendo il segretario politico del partito, non poteva non aver saputo dal segretario amministrativo (Severino Citaristi) che parte dei soldi necessari al funzionamento della Dc provenivano da canali illegali. 

DI PIETRO: "Ho speso 100 lire quest'anno; il mio segretario amministrativo, colui che per me faceva la spesa, me l'ha detto dove le ha prese o non me l'ha detto? Mi ha detto se di queste 100 lire 20 sono in violazione della legge per il finanziamento ai partiti? Glielo ha mai detto?"

FORLANI: "No! In ordine ai contributi cosiddetti esterni, ricevuti da cittadini o da operatori economici o da categorie, in ordine a questi contributi il segretario amministrativo non riferisce puntualmente, e mai riferisce al segretario politico di avere ricevuto contributi che non vengano registrati a seconda delle norme vigenti."

Davanti alla reticenza di Forlani, Di Pietro ricordò in aula che il segretario amministrativo Severino Citaristi riferì durante un'udienza di aver ricevuto contributi dal gruppo Ferruzzi in tre occasioni: la prima direttamente da Gardini, tramite un conto di Ginevra, per circa 2 miliardi, su indicazione del segretario politico; nel '91 arrivò un ulteriore versamento di 3 miliardi e in tale occasione fu proprio Forlani a chiedere a Citaristi di prendere contatti con omissis; in occasione delle elezioni politiche del 1992 un altro miliardo ed anche allora Forlani mandò il segretario amministrativo da omissis.

Di fronte all'evidenza dei fatti Forlani cercò di giustificarsi affermando di essersi limitato, nella primavera del 1992, a trasmettere a Citaristi la volontà espressa da omissis di dare un contributo al partito.

SPAZZALI: "Gli uomini di grande responsabilità politica queste cose avevano l'obbligo, dico io, magari mi sbaglio, non solo di saperle ma di scuoterle, perchè era nell'interesse collettivo, non di una parte privata o pubblica. Comprende onorevole? Qui invece sembra che nessuno ne sapesse niente. Non è concepibile. Mi scusi onorevole le voglio ridare funzione, orgoglio di partito."

Altri segretari politici, come Renato Altissimo o Giorgio La Malfa, fecero delle deposizioni brevissime ammettendo di aver ricevuto direttamente dalle mani di omissis contributi dell'ordine di 200-300 milioni. E fu lo stesso omissis a chieder loro di non iscrivere a bilancio le somme ricevute. La Malfa ammise di aver chiesto il contributo per far fronte alla campagna elettorale e omissis, dopo averci pensato, lo invitò nella sua abitazione a Roma e gli consegnò il "contributo" che doveva però restare riservato. I politici vollero sempre precisare che i soldi ricevuti dal gruppo Ferruzzi non restavano nelle loro tasche, bensì venivano immediatamente versati al partito di appartenenza il quale eludeva la legge sul finanziamento pubblico dei partiti facendoli figurare contabilmente nel bilancio sotto forma di collette private inferiori a 5 milioni cadauna e quindi ammesse dalla legge.

MARTELLI: "Accettai l'offerta di omissis che mi consegnò personalmente 500 milioni in contanti dicendo che si trattava di denaro suo e della sua famiglia e che me lo dava perchè siamo come fratelli. Si può immaginare quindi, leggendo poi che ha attribuito viceversa a Cusani questo finanziamento, quale sia stato il mio stato d'animo e le ragioni per le quali mi sono presentato spontaneamente e sono ben felice di deporre qui."

L'ex ministro degli Esteri Gianni De Michelis negò di aver mai ricevuto personalmente contributi, né tanto meno tramite la sua segreteria e dichiarò di aver risolto il problema, per quel che riguardava l'attività politica, grazie ad un accordo col suo partito, il Psi. Essendo uno degli esponenti più in vista, le campagne elettorali e l'attività della federazione erano a carico della direzione del partito. Di Pietro cercò di dimostrare la falsità di tali affermazioni, ma quando ricordò a De Michelis che una delle accuse principali che gli venivano mosse era l'esistenza di consulenze da parte di 5 persone che venivano pagate da altri gruppi ma che in realtà lavoravano per lui, egli affermò che si trattava di falsità e che non intendeva rispondere in quella sede di cose di cui era imputato in altra sede.

La deposizione di Bettino Craxi era molto attesa e l'ex segretario del Psi anticipò la sua convocazione di un giorno per motivi di sicurezza. Per la prima volta in diretta TV Craxi disegnò quello che per lui era lo scenario dell'illecito finanziamento ai partiti, coinvolgendo tutte le forze politiche ed in particolare anche il Pci/Pds.

Craxi parlò per quasi due ore con molta determinazione e fu raramente interrotto da Di Pietro. Data l'importanza e la chiarezza delle sue dichiarazioni, ritengo opportuno riportarle pressoché interamente senza bisogno di particolari commenti.

DI PIETRO: "Lei è al corrente se il suo partito, il partito socialista italiano, negli anni abbia mai ricevuto denaro dalle imprese in modo difforme dalla legge sul finanziamento ai partiti?"

CRAXI: "Mi consenta di chiarire innanzitutto prima un punto. Ne la Montedison ne il gruppo Ferruzzi, ne il dottor omissis ne altri, ne direttamente ne per interposta persona a me personalmente non hanno mai dato una lira. Diversamente, tanto il gruppo Ferruzzi che il gruppo Montedison, hanno versato contributi all'amministrazione del partito, a partire da quando non le saprei dire ma certamente da molti anni, fino certamente alle ultime elezioni politiche. Del resto Montedison e Ferruzzi non versavano solo al partito socialista. Vedete, in Italia il sistema di finanziamento ai partiti e alle attività politiche in generale contiene delle irregolarità e delle illegalità io credo a partire dall'inizio della storia repubblicana. Questo è un capitolo, che possiamo anche definire oscuro, della storia della democrazia repubblicana, ma da decenni il sistema politico aveva una parte, non tutto, una parte del suo finanziamento che era di natura irregolare o illegale, e non lo vedeva solo chi non lo voleva vedere. I partiti erano tenuti a presentare dei bilanci in Parlamento, i bilanci erano sistematicamente falsi, tutti lo sapevano ivi compreso coloro i quali avrebbero dovuto esercitare funzioni di controllo, nominati dal presidente della Camera, ma agli atti parlamentari non risulta che sia mai stata fatta una questione importante relativa alla veridicità dei bilanci dei partiti. Ne i partiti di opposizione contestavano i bilanci dei partiti di governo, ne i partiti di governo contestavano i bilanci dei partiti di opposizione".

Qualcuno può credere che il ravvenate Gardini, che aveva grandi interessi in Emilia o in altre località italiane e il cui gruppo aveva grandi interessi nell'Unione Sovietica, non abbia mai dato un contributo al partito comunista? Sarebbe come credere che il presidente del Senato, faccio un esempio, il senatore Spadolini, essendo stato dieci anni segretario del partito repubblicano abbia avuto sempre un finanziamento assolutamente regolare e che le irregolarità e le illegalità sono sempre state commesse dal vecchio La Malfa e dal giovane La Malfa. O sarebbe come credere che il presidente della Camera, onorevole Giorgio Napolitano, che è stato per molti anni ministro degli Esteri del partito comunista e aveva rapporti con tutte le nomenclature comuniste dell'Est, a partire da quella sovietica, non si fosse mai accorto del grande traffico che avveniva sotto di lui tra i vari rappresentanti e amministratori del partito comunista e i paesi dell'Est. Cosa non credibile."

DI PIETRO: "Perché gli imprenditori, società, enti e cooperative sentivano questo bisogno di pagare i partiti? Sa, molti di loro, migliaia, sono venuti da me dicendo che sono stati concussi."

CRAXI: "In questo caso mentono, non dicono la verità, ci sono gruppi industriali che in Italia sono una potenza, che sono più potenti dei partiti, potevano spaventare non essere spaventati. Loro incutevano timore, che avevano grande influenza nella vita pubblica. Ci sono molte ragioni che possono aver spinto i gruppi, una considerazione politica generale, di sostegno della stabilità politica del Paese, di sostegno di forze di Governo, di convenienze ad ottenere e a mantenere anche un rapporto di amicizia con forze di opposizione, ma lei stia certo, e il tribunale stia certo, che tutti i maggiori gruppi industriali hanno finanziato il sistema politico con dei contributi elettorali, non credo che nessuno si sia svenato. Con contributi elettorali che hanno certamente erogato su un ampio arco e di partiti, e di parlamentari e di esponenti politici candidati parlamentari, perchè si vedeva a occhi nudi che i partiti spendevano molto di più di quanto non potessero disporre sulla base della legge del finanziamento pubblico."

In questa prima parte della deposizione Craxi spese poche frasi per tutelare direttamente la propria persona ed il proprio partito. Egli cercò di alleviare le sue responsabilità coinvolgendo tutti e affermando che tutti sapevano (e quindi anche la magistratura) ma nessuno denunciava. Cercò di dimostrare che se lui veniva accusato di certi reati, allora anche tuttti gli altri esponenti del sistema politico avrebbero dovuto ricevere lo stesso trattamento. La sua strategia era: "se proprio deve morire Sansone, che muoia con tutti i Filistei."

Craxi cominciò a parlare dei suoi rapporti con l'affare Enimont - vera ragione per cui era stato convocato - nella seconda parte della deposizione, a seguito di una specifica domanda del pubblico ministero.

DI PIETRO: "Lei ha contribuito, all'interno delle decisoni del Governo o degli esponenti che rappresentavano il partito socialista al Governo, a trovare una soluzione che di fatto escludesse Gardini dalla corsa Enimont, cioè, vale a dire: qui deve comprare l'Eni a qualsiasi costo?"

CRAXI: "Io non mi sono mai direttamente occupato della vicenda Enimont, salvo per affermare la necessità che la parte pubblica non piegasse la testa e che quindi comprasse. Questa è sempre stata la mia opinione, era del resto l'opinione della grande maggioranza del Parlamento, di una parte della maggioranza di Governo e dell'opposizione comunista."

DI PIETRO: "Si dice, nel capo d'imputazione con cui si è discusso con Cusani, che una cifra enorme sarebbe arrivata nel '91 e nel '92: 70 miliardi nel '91 e 5 miliardi nel '92. Non ne ha mai sentito parlare?"

CRAXI: "Eccome non ne ho sentito parlare! Mi sono chiesto che fondamento ha una cosa del genere e sono andato a prendere il testo di una deposizione del omissis il quale spiega la ragione per la quale sarebbe stata messa a disposizione del partito socialista e mia la somma di 75 miliardi. Una ragione sarebbe la seguente: 'e ciò perchè in quel periodo la figura del leader del Psi è molto carismatica e viene ritenuto opportuno tenerla in particolare considerazione, specie in relazione alle posizioni di potere che lo stesso ed il suo partito si ritiene debba continuare ad aumentare nella scena politica italiana. E a questo titolo e cioè come un omaggio al mio carisma politico sarebbe stata messa a disposizione una somma di 75 miliardi. Mi si consenta un'ironia di dire che il mio carisma politico allora vale 150 volte quello dell'onorevole Martelli e 200 volte quello dell'onorevole La Malfa. Questa motivazione è assolutamente ridicola e la maxi tangente, come io ho sempre pensato sin dall'inizio, con il permesso della Corte, non è che una maxi balla. Però stia pur certo che il gruppo Ferruzzi e il gruppo Montedison di contributi al partito comunista ne hanno dati di sicuro."

Ho dato così ampio spazio alle dichiarazioni di Craxi perchè ritengo che in linea generale corrispondano alle mie tesi circa il quasi totale coinvolgimento delle forze politiche presenti nella prima repubblica nella corruzione ambientale del sistema italiano. Ho specificato il "quasi" perchè fino ad ora il Movimento Sociale Italiano sembra essere stato miracolosamente escluso dalla spartizione, d'altronde ne Craxi ne omissis, ne altri testimoni hanno mai accennato in sede processuale eventuali coinvolgimenti del partito in questione.

Inizialmente si pensava che la maxi tangente fosse stata spartita solo tra le forze di Governo, ai cinque segretari del Pentapartito più una quota destinata alla corrente romana della democrazia cristiana di Giulio Andreotti, all'epoca della vicenda Enimont presidente del Consiglio. Dunque al C.A.F.: Craxi, Andreotti, Forlani.

Nel corso del processo, grazie alle rivelazioni di omissis, vennero però coinvolti anche altri partiti tra cui il Partito Comunista, per un miliardo versato da Gardini nel 1989, nel pieno della battaglia per gli sgravi fiscali all'atto della costituzione di Enimont.

omissis: "Poco tempo fa, pochi mesi fa, ho appreso anche dal dottor Gardini che all'epoca della defiscalizzazione erano state date contribuzioni ai partiti Dc, Psi, e anche partito comunista. Oltre al dottor Gardini anche il dottor Cusani era a conoscenza delle circostanze."

Nonostante le numerose denuncie di Craxi e omissis, il Partito Comunista, trasformatosi in Pds, non fu direttamente coinvolto nel processo, infatti fu l'unico partito, insieme al Movimento Sociale Italiano, che non vide propri dirigenti sul banco dei testimoni. Questo punto "oscuro" del processo Cusani avrà ripercussioni successivamente e sarà uno dei motivi per cui la procura milanese verrà accusata di non ingerenza negli affari (illeciti) del Pds.

Con molta sorpresa si apprese che anche la Lega Nord incassò 200 milioni versati da omissis tramite un funzionario della Montedison, Marcello Portesi, al segretario amministrativo della Lega Nord, Alessandro Patelli. Quest'ultimo disse che la somma fu rubata poco dopo nella sede della Lega a Milano e che denunciò il furto di soli 15 milioni perchè non avrebbe saputo come giustificare il possesso di una somma così ingente. Patelli cercò sempre di accollarsi ogni responsabilità e affermò che Umberto Bossi, segretario politico del partito, era sempre stato all'oscuro della vicenda. Questa versione dei fatti con convinse Di Pietro in quanto nella Lega Nord, partito in crescita, un contributo così sostanzioso e fuori tesseramento non poteva essere nascosto al segretario politico.

DI PIETRO: "Il fatto che una persona abbia portato 200 milioni alla Lega è un evento unico?"

BOSSI: "Si, è un evento grosso insomma."

DI PIETRO: "Unico o grosso?"

BOSSI: "E' un evento unico e grosso, grave. Non è facile trovare chi fa certe regalie. Il problema è che questi signori ci danno addosso con i loro giornali, con le loro televisioni non ci danno spazio, con le pubblicità non è venuto niente; c'è la possibilità di parlare con omissis che era proprietario di televisioni, era proprietario di giornali, era proprietario di grandi imprese. In un momento storico in cui per noi era assolutamente fondamentale riuscire a preparare una segreteria politica in grado di tenere 80 parlamentari..."

DI PIETRO: "Il motivo per cui Patelli le dice di incontrare omissis è che voleva che fosse lei stesso ad accreditare l'immagine della Lega che aveva bisogno di qualcuno che desse lavoro alla sua struttura organizzativa? Per aprire le porte vuol dire ingraziarsi omissis affinché venisse incontro alle esigenze della Lega?"

BOSSI: "Ma per l'amor di Dio !"

DI PIETRO: "Ma per l'amor di Dio si, o per l'amor di Dio no?"

BOSSI: "Ma per l'amor di Dio si !"

Bossi, durante il processo, non ammise apertamente di essere a conoscenza del contributo illecito di omissis, ma lasciò intendere che se anche la Lega, tramite Patelli, lo avesse accettato, non si sarebbe di certo scandalizzato. Egli, dinanzi le accuse, cercò di giustificare la Lega Nord dicendo che era del tutto normale che una forza politica appena nata, senza alcun mezzo finanziario in grado di farla conoscere agli elettori, si rivolgesse a coloro che detenevano il potere della comunicazione e chiedesse loro un sostegno. Ancora una volta la colpa cadde sul "sistema".

Le accuse (fondate) sulla Lega Nord dimostrarono definitivamente la presenza nella prima Repubblica di una situazione politica degenerata che ha condotto alla corruzione ambientale, per cui anche un partito senza alcuna tradizione, senza potere, senza una forte presenza in Parlamento, poteva arrogarsi il diritto di chiedere o di ricevere senza il minimo scrupolo. D'altra parte omissis ammise che gli era sembrato opportuno dare dei soldi alla Lega Nord perchè, avendo riscosso nelle ultime elezioni amministrative un notevole consenso elettorale, avrebbero potuto in futuro diventare una forza politica importante in grado di contraccambiare il favore. Pur riconoscendo l'enorme merito della Lega Nord nel processo di smantellamento del vecchio sistema politico, l'incasso di quei duecento milioni ha infangato i suoi nobili propositi. E in base a queste considerazioni sembra quasi impossibile che un partito a livello nazionale quale il Movimento Sociale Italiano, potesse o volesse restare escluso dalla spartizione. Eppure le vicende giudiziarie hanno accertato che così è stato. Il motivo per cui l'Msi non sia stato coinvolto in Tangentopoli sta nella sua perenne isolazione dalle altre forze politiche, isolazione, forse obbligata, che però gli ha consentito di salvarsi dal contagio del sistema. L'Msi, da sempre forza di opposizione nell'opposizione, ha rappresentato la classica eccezione alla regola e poco importa se per volontà sua o per imposizione di terzi. Lo stesso Craxi, che ha sempre cercato di coinvolgere nello scandalo tutte le forze politiche della Prima Repubblica ammise che:

"L'Msi era una forza politica confinata in un ghetto, e penso che non disponesse di grandi mezzi, e che tutti fossero legali. Non metterei la mano sul fuoco, però non posso accusarli di cose che non so." ("Il Giornale", 15 novembre 1994)

Il processo Cusani vide come protagonisti non solo i politici ma anche alcuni personaggi che fungevano da trait d'union tra imprese e politici. Di Pietro li ha definiti i "faccendieri". Tra questi spicca il nome di Silvano Larini, amico e consigliere di Craxi, latitante per sei mesi svelò poi tutti i misteri legati al contro protezione, un conto cifrato svizzero su cui transitarono 7 milioni di dollari nel 1981 da parte del Banco Ambrosiano di Calvi per il partito socialista. Larini raccontò inoltre il suo ruolo di intermediario tra il Psi e le imprese, il sistema delle nomine ai vertici dell'ENI e la posizione del presidente Gabriele Cagliari che, secondo Larini, "non poteva farsi portare via la chimica a costo zero".

Il 15 gennaio 1994 testimoniò al processo Mauro Giallombardo, segretario particolare di Craxi e socio di Cusani nella Merchant Italia, una società tramite la quale, secondo l'accusa, transitarono svariati miliardi della tangente Enimont, destinati al partito socialista e versati poi su alcuni conti cifrati accesi presso la Banca Internazionale del Lussemburgo; alcuni di questi conti erano di Cusani.

DI PIETRO: "Nel conto Ambest a noi risulta che sono andati a finire circa tre miliardi e mezzo della provvista anticipata da Berlini per la tangente Enimont, come da richiesta di Cusani. Del conto Ambest lei ci ha detto di esserne il beneficiario economico. Ci vuole raccontare se è vero che sono arrivati questi soldi e come stanno i fatti?"

GIALLOMBARDO: "Innanzitutto con l'Enimont non so assolutamente niente e non ho niente a che vedere, ne tanto meno con la cosidetta maxi tangente Enimont. E' vero, una volta il dott. Cusani mi aveva detto se potevo dargli un conto dove far arrivare il corrispondente di circa tre miliardi e mezzo. Ma non ne sapevo la provenienza. Questo conto era solo da paravento perchè di fatto il vero beneficiario è un arabo, un avvocato di cui non ricordo il nome; forse è Kuwaitiano o Iracheno."

DI PIETRO: "Lei nel '91 si avvicinò sempre più a Craxi. Ha avuto modo di riscontrare qualcosa di particolare nella gente che girava attorno a Craxi?"

GIALLOMBARDO: "Quando nel '92 ho cominciato a stare sempre di più a Roma, sotto la campagna elettorale, ho visto la sua serietà e mi sono sempre di più avvicinato all'uomo, presidente Craxi. Nel frattempo mi vedevano vicino a Craxi e cominciavano a parlare, ho visto sinceramente che molte persone, tante, anche vicine a noi, sfruttavano il nome di Bettino senza che lui lo sapesse. A riguardo dell'arabo a un certo punto ho immaginato che, essendo questo un professionista che aveva anche dei soldi suoi, forse, ma non ne sono sicuro, alcuni di questi contributi erano per il partito socialista, ma non ne sono sicuro, nessuno me l'ha mai detto."

Il punto focale dell'interrogatorio stava nell'individuare con più precisione l'identità del misterioso arabo ma Giallombardo fu sempre vago a tal riguardo tanto che intervenne il presidente Tarantola dicendo che tal comportamento, se si fosse stati in un altro ordinamento, avrebbe configurato offesa al tribunale e che sarebbe comunque stato inutile continuare. Si seppe successivamente che l'arabo in questione è un avvocato Iracheno che ha uno studio al Cairo e si presenta come funzionario di rango dell'OLP, tuttavia non si riuscì a definire con certezza il suo ruolo nella vicenda Enimont.

Un altro latitante che rientrò per il processo fu Luigi Bisignani, ex giornalista, responsabile delle relazioni esterne del gruppo Ferruzzi ed amico di Gardini, fece da tramite tra il gruppo (omissis in particolare) e la banca del Vaticano, lo IOR. Bisignani, su richiesta di Gardini, si rivolse a monsignor De Bones, un alto dirigente dello IOR, e gli consegnò dei plichi contenenti i CCT della maxi tangente, sostenendo trattarsi esclusivamente di un suo favore nei confronti di Gardini. In realtà secondo lo IOR Bisignani incassò 14 miliardi e Di Pietro era convinto che si fosse anche tenuto parte dei soldi; secondo l'avvocato Spazzali i miliardi potrebbero esser stati trattenuti dalla stessa banca vaticana.

Il 17 febbraio 1994 Sergio Cusani presentò al tribunale una memoria scritta e accettò di rispondere alle domande del pubblico ministero. Confessò di aver versato sul conto Ambest, in relazione all'operazione Enimont, la somma di lire 7.520.100.000 su ordine di Gardini, ma si rifiutò di indicare chi gli aveva dato le coordinate del conto; per questo motivo Di Pietro si rifiutò di far lui altre domande. Cusani nella sua memoria difensiva sosteneva che Gardini gli aveva dato una mandato fiduciario per gestire 63 miliardi avanzati dall'iniziale provvista; quei soldi dovevano servire a Gardini per riprendere la guida del gruppo ravennate.

La requisitoria del pubblico ministero durò 26 ore e fu caratterizzata dall'uso di un computer mediante il quale l'accusa illustrò le sue tesi e da affermazioni molto dure nei confronti di Cusani, affermazioni che successivamente costituirono l'oggetto di un esposto del finanziere nei confronti di Di Pietro.

DI PIETRO: "Dall'inizio tutto il denaro doveva essere destinato al sistema dei partiti; era il cadeau che Gardini metteva a disposizione del sistema dei partiti per avere quella convenienza di accreditamento di cui ci ha parlato Gardini. Dobbiamo dire che è vera questa circostanza, che i soldi Cusani li ha ricevuti non per metterseli nei suoi conti correnti, ma per darli ai partiti. Allora bisogna vedere se Cusani ha invertito il titolo per cui deteneva questo denaro, se Cusani ha tradito Gardini o se ha eseguito i suoi ordini. Abbiamo parlato dei silenzi di Cusani. Ma quali silenzi! Qui bisogna distinguere tra due luoghi: l'aula di giustizia e l'atrio del palazzo di giustizia. Perché nell'aula di giustizia Cusani è stato zitto, ma poi è andato nell'atrio del palazzo di giustizia a minacciare i giornalisti, a rilasciare dichiarazioni, a mandare messaggi. E questo è un dato di fatto di cui bisogna tener conto per valutare la sua personalità. Per conto di chi erano stati aperti qui conti e perchè la necessità per Cusani di aprirne dieci e non uno solo? Anche questo è un dubbio che Cusani mai ci ha voluto svelare. C’è un solo modo per dimostrare se su quei conti le cose si sono svolte come ci hai detto tu: ci devi dare l'autorizzazione ad esaminare qui conti. E invece Cusani ha fatto da prete e sacrestano, ha deciso lui quali carte farci vedere di quei conti. Se noi non possiamo vedere le operazioni che sono state fatte dietro quei conti, come possiamo dire che quei conti sono solo di Cusani? Cusani è stato almeno tre volte traditore: è stato traditore con Gardini perchè Gardini gli ha dato i soldi per poterli destinare e consegnarli ai sistemi dei partiti e lui invece ha consegnato le briciole e se li è tenuti lui; Cusani è traditore nei confronti di omissis, nei confronti del gruppo, della famiglia Ferruzzi perchè non ha detto alla famiglia Ferruzzi che aveva tutti quegli altri soldi nei conti correnti e che non erano suoi ma della famiglia Ferruzzi, compreso Gardini; Cusani è stato traditore anche con i politici perchè ai politici doveva finire una certa somma ma, finito l'affare, dato il tozzo di pane il resto se lo è tenuto lui. E allora non mi resta che, sulla base di quello che io ritengo sia Cusani, quel camaleonte, bugiardo, ladro che ha tradito amici e danti causa, e sperando di poter cambiare la mia valutazione perchè sono sempre critico e sempre pronto a cambiare la mia valutazione, non do un giudizio assoluto, ritengo che per la quantificazione della pena si debba tener conto innanzitutto dell'unicità del disegno criminoso di quasi tutti i reati contestati."

La quantificazione della pena richiesta da Di Pietro per Cusani è indicata nella seguente tabella:

 

Tab. 6.1

PENA BASE anni 4 + multa Lit. 13.000.000

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CONTINUAZIONE PER PLURALITA' FALSI IN BILANCIO anni 1 + multa Lit. 1.000.000

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CONTINUAZIONE PER PLURALITA' DI ILLECITI FINANZIAMENTI anni 1 + multa Lit. 5.000.000

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CONTINUAZIONE PER PLURALITA' DI APPROPIAZIONI INDEBITE anni 1 + multa Lit. 1.000.000

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TOTALE ANNI 7 + MULTA LIT. 20.000.000

Il compito della difesa fu molto arduo, infatti l'avvocato Spazzali cercò di dimostrare che Cusani non era un amministratore occulto della Montedison e che non poteva quindi aver compiuto un falso in bilancio, che di fatto era l'accusa più grave. Cercò anche di convincere il tribunale, oltre che l'opinione pubblica, che il suo cliente non era un ladro, un bugiardo e un traditore, affermando che Cusani era stato l'unico ad aver illustrato l'organizzazione dei conti e l'unico, nonché il primo, ad esser stato sottoposto ad un processo con il rito immediato.

SPAZZALI: "Si fa comunque il giudizio immediato perchè si ritiene che la prova è evidente. Ora la prova che la prova non era evidente sono cinque mesi di processo. Voi alla procura lo avete capito benissimo: queste divisioni non stanno in piedi!"

Dopo la richiesta della parte civile, la Montedison, di un risarcimento danni di Lit. 170 miliardi, a Cusani fu data l'ultima possibilità per parlare a sua difesa davanti al Tribunale e anche in questa occasione egli mantenne la stessa linea difensiva.

CUSANI: "Non sono mai stato un vile, non lo sarò neppure ora, perchè comunque vada a finire questa vicenda, e temo il peggio, io non spargerò mai su chicchessia, ne oggi ne mai, i frutti avvelenati dei miei supposti errori. Se l'accusa avesse fondamento e compiuta ragione su ciascun punto allora sarebbe anche vero che sette anni di carcere sono pochi, e la voce popolare avrebbe ragione. Ma chi traccia questi giudizi certo il carcere non lo ha ancora apprezzato. Signor Pubblico ministero io non voglio fare pena a nessuno, ne voglio la pietà, io chiedo solo una giustizia giusta."

Il 28 aprile 1994 il presidente della seconda sezione penale del Tribunale di Milano, Giuseppe Tarantola, coadiuvato dai due giudici a latere, Marilena Chessa e Giuliana Merola, condannarono Sergio Cusani ad una pena di 8 anni di reclusione e 16 milioni di multa oltre che al pagamento delle spese processuali, al risarcimento dei danni subiti dalle parti civili Montedison s.p.a. e Montedison International per un totale di Lit. 168.071.000.000 oltre che ai relativi interessi tenendo conto della rivalutazione monetaria per l'intera somma e cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. I reati per cui Cusani è stato ritenuto colpevole sono: falso in bilancio, illecito finanziamento ai partiti e appropriazione indebita.

L'1 giugno 1994 venne depositata la motivazione della sentenza; un dossier di 244 pagine in cui i giudici affermano:

"Sergio Cusani ha agito con determinazione allo scopo di raggiungere il profitto che si prefiggeva unitamente a Gardini, omissis e Garofano, operando una netta scelta di campo tra un'attività professionale corretta ed una basata sulle sole capacità distorsive del denaro. [...] Senza la sua opera di consulenza e di vigile operatività Gardini non sarebbe stato in grado di trovare un accordo con chi lo contrastava. [...] La condotta dell'attuale imputato è stata quindi determinante nell'indurre Gardini a delinquere e nel rafforzarne il proposito criminoso. [...] E' emerso con grande evidenza che Cusani ha svolto intensa attività di relazione tra il mondo imprenditoriale e politico mettendo a disposizione le sue conoscenze e i suoi riferimenti finanziari all'estero per movimentare illecitamente somme di denaro in misura illimitata. [...] Il suo comportamento processuale non ha certo agevolato il lavoro degli inquirenti e del Tribunale, anzi ha fatto maturare la convinzione che l'imputato abbia cercato di condurre le indagini solo in alcune direzioni da lui ben individuate." ("Il Giornale", 2 giugno 1994)

Nel dossier vi sono critiche anche per il pubblico ministero la cui impostazione accusatoria viene definita imperfetta, le contestazioni troppo dettagliate e lacunose, a volte fuorvianti nel tentativo di far quadrare cifre tra loro incompatibili. Il Tribunale sostiene anche che la richiesta da parte dell'accusa, accolta dal giudice per le indagini preliminari, di rito abbreviato era velleitaria perchè nei fatti non esisteva la prova evidente di responsabilità, fondamentale per concedere il rito abbreviato e la conseguenza è stata la celebrazione di un processo con un rito del tutto improprio e con anomalo dispendio di energie. Un'altra critica all'accusa è per aver voluto processare il solo Cusani benché lo stesso fosse chiamato a rispondere di tutti i reati in concorso con altri personaggi.

Questa sentenza non chiarisce un punto fondamentale. Occorre chiederci: "Il decreto sulla defiscalizzazione era un diritto per la Montedison?", o meglio, "La tramutazione in legge ordinaria di tale decreto era, dal punto di vista squisitamente legale, lecita?". Se la risposta fosse negativa saremmo di fronte ad un classico caso di corruzione politica, infatti Gardini avrebbe pagato i politici per ottenere un beneficio che, per legge, non gli spettava. Se la risposta fosse affermativa si tratterebbe di concussione politica, infatti Gardini sarebbe stato indotto dai politici a pagare per poter far valere un proprio diritto legalmente acquisito, ovvero per indurli a prendere una decisone che lo favorisse, senza peraltro violare la legge (il Parlamento può decidere se approvare o meno un determinato provvedimento in materia fiscale allorquando questo non violi una legge esistente). La soluzione di questo dilemma non farebbe mutare le responsabilità di Cusani, tuttavia sarebbe utile per la definizione delle reali responsabilità della Montedison, rappresentata da Gardini, e dei politici coinvolti nell'affare.

I problemi per Cusani non sono finiti con la condanna in primo grado. Nonostante questa sia stata superiore di un anno rispetto quella chiesta dall'accusa, la Procura generale ha presentato appello in vista del processo di secondo grado affermando che "è compito della Corte ripristinare la giusta proporzione fra i fatti e la sanzione e infliggere all'imputato la relativa adeguata maggior pena."

Siccome la Procura generale ritiene che la pena da infliggere deve attestarsi verso il massimo data la spiccata capacità a delinquere dell'imputato, Cusani potrebbe vedersi aumentata la pena fino a 15 anni di reclusione.

 

6.4 IL PROCESSO ENIMONT

Il 5 luglio 1994, appena terminato il processo Cusani, iniziò il processo ai politici della Prima Repubblica inquisiti per la maxi tangente Enimont. Il pubblico ministero, Antonio Di Pietro, convocò ben 222 testimoni tra i quali tutti i grandi protagonisti della storia politica ed economica degli ultimi 50 anni del Paese. I nomi più importanti furono: Giulio Andreotti che raccontò dei suoi rapporti con Franco Piga, Achille Occhetto e Massimo D'Alema chiamati a spiegare i loro rapporti con Raul Gardini e con omissis, Ciriaco De Mita per i suoi rapporti con Severino Citaristi e omissis, Gianfranco Miglio e Piergianni Prosperini per far luce sulle modalità di acquisizione di denaro e gestione delle casse della Lega Nord da parte di Umberto Bossi e Patelli e ancora Vittorio Sbardella, Rino Formica, Clemente Mastella, Sergio Cusani, Dario Cusani, Diego Curtò, ecc.. Inoltre, per quanto riguarda il ruolo avuto dallo IOR, alcuni avvocati della difesa chiamarono a testimoniare l'intera commissione di cardinali che vigila sulla banca del Vaticano (che però non venne in aula).

Sul banco degli imputati, oltre ai cinque segretari del pentapartito, diversi uomini politici tra cui Umberto Bossi, Arnaldo Forlani, Renato Altissimo, Claudio Martelli, Paolo Cirino Pomicino, Severino Citaristi ed anche uomini d'affari tra cui omissis e Luigi Bisignani, per un totale di 37 imputati. Il processo fu caratterizzato dal fatto che gran parte dei testimoni si avvalse della facoltà di non rispondere, primo fra tutti Sergio Cusani che affermò:

"E' mia ferma convinzione che in questo processo mi si voglia processare una seconda volta, dopo esser stato processato da solo per più di sei mesi e condannato a una pena superiore a richiesta dal Pm." ("Il Giornale", 21 luglio 1994)

L'imputato di maggior rilievo del processo, Bettino Craxi, non presenziò mai in aula e si limitò ad inviare dei messaggi via fax dalla Tunisia, mentre depositò l'ex ministro della Giustizia, Claudio Martelli, che si presentò in aula il 21 settembre 1994 per interrompere la contumacia dichiarata dal Tribunale all'inizio del dibattimento. Martelli disse che la verità è sempre la stessa da imputato, da indagato o da testimone.

Tra i testimoni che accettarono di deporre vi fu Giorgio Tradati, imprenditore e amico d'infanzia di Bettino Craxi. Tradati lanciò accuse gravi contro l'ex segretario del Psi affermando di aver per questi gestito due conti bancari svizzeri su cui furono depositati 30 miliardi. L'aspetto più grave sollevato da Tradati fu che i miliardi restarono nei conti e non furono quindi riscossi per il partito, solo due miliardi rientrarono in Italia per pagare il personale della sede romana del partito socialista e i giornalisti de L'Avanti. Quando iniziarono le indagini della Procura di Milano Tradati si rifiutò di eseguire la richiesta di Craxi di svuotare i conti bancari di Ginevra e Chiasso e per questo fu obbligato a dimettersi da procuratore dei conti. Tradati disse inoltre che con parte dei soldi furono acquistati 15 chili d'oro che dovrebbero essere ancora depositati in Svizzera unitamente ai miliardi residui. Craxi smentì le affermazioni del suo ex amico tramite un fax inviato dalla Tunisia con il quale riconosceva l'esistenza dei conti ma ribadiva che le somme in questione erano sempre state a disposizione del partito e dei suoi successori alla segreteria e mai utilizzate per finalità diverse da quelle politiche. ("Il Giornale", 4 ottobre 1994)

A seguito di queste affermazioni la segreteria del Psi, allora presieduta da Ottaviano Del Turco, reagì sostenendo di non conoscere ne Tradati, ne l'esistenza dei conti svizzeri e lo stesso comitato di redazione dell'Avanti disse che:

"L'ingloriosa fine del giornale, portato ad un passa dal fallimento, è dovuta ai mancati versamenti del partito durante la gestione Craxi, sebbene questi fossero dovuti e riconosciuti nei bilanci. Nessun finanziamento illecito è stato girato al quotidiano socialista e purtroppo neanche lecito." ("Il Giornale", 5 ottobre 1994)

Nel febbraio 1995 il Consiglio federale elvetico, rispondendo ad un'interpellanza inoltrata dal consigliere nazionale socialista Jean Ziegler, affermò che i 15 chili d'oro scoperti in una cassetta di sicurezza a Ginevra appartengono a Bettino Craxi. L'oro fu poi immediatamente sequestrato dal giudice istruttore, nell'ambito della procedura elvetica concernente il riciclaggio di denaro.
("Il Giornale", 26 febbraio 1995)

L'ex segretario della Democrazia Cristiana, Arnaldo Forlani, fece solo una breve dichiarazione perchè "al processo Cusani ho già toccato con mano cosa accade in un processo condizionato dalla spettacolarizzazione". Rispetto le precedenti deposizioni Forlani ammise di esser stato a conoscenza dei contributi versati nel 1992 da omissis e da Alberto Grotti che consegnarono materialmente le somme alla segreteria amministrativa, ma tenne a precisare la sua estraneità circa il versamento di parte della maxi tangente Enimont. Forlani dichiarò anche di non essere mai intervenuto per influenzare o condizionare scelte assunte dal Governo e che gli aiuti finanziari pervenuti al partito durante la sua segreteria non sono mai stati collegati in alcun modo alla vicenda Enimont.

Particolare scalpore fece la deposizione di Gianfranco Miglio che, seppure elaborò un'analisi piena di "sentito dire", di "immagino" e di "penso", lanciò dure accuse nei confronti della Lega Nord. In particolare egli parlò di oscuri finanziamenti prima delle elezioni del '92 e di altri pagamenti e rimborsi in nero a collaboratori del movimento. L'ex ideologo della Lega Nord accusò anche il sindaco di Milano, Marco Formentini, di aver ricevuto quattro milioni al mese, senza che questi fossero denunciati al fisco. Le rivelazioni di Miglio si rivelarono infondate anche perchè non erano sostenute da testimonianze oculari e quando Di Pietro chiese spiegazioni circa le accuse a Formentini, il ragioniere della Lega Nord, Aldo Rizzi, affermò:

"Sulla scrivania di Patelli ho visto nel febbraio-marzo del '92 un blocco con su scritto 'dare a Formentini 4 milioni', tutto qui. Non ho mai parlato di versamenti mensili." ("Il Giornale, 15 novembre 1994)

A seguito della convocazione al processo di Gianfranco Miglio, Castellazzi, Prosperini e Lo Bello (quattro nemici giurati della Lega Nord ed in precedenza espulsi dal movimento), Alessandro Patelli affermò di avere la sensazione che il Pm stesse portando avanti processi politici e non giudiziari.

"Chiamare al processo Enimont quattro persone che hanno il dente avvelenato contro la Lega e parlano per sentito dire è un chiaro segnale di attacco contro Umberto Bossi e contro un partito che non ha nulla a spartire con i ladroni della Prima Repubblica."
("Il Giornale", 15 novembre 1994)

Gli avvocati difensori si dichiararono scettici sull'utilità del dibattimento, ritenuto necessario solo per la quantificazione della pena e mutilato nella difesa in quanto non consentiva il contraddittorio perchè i testimoni si avvalevano della facoltà di non rispondere. L'avvocato di Craxi, Enzo Lo Giudice, chiese l'assoluzione per l'ex segretario del Psi che, a suo giudizio, era stato ritenuto responsabile di tutto prima che fossero accertate le sue responsabilità penali. ("Il Giornale", 18 gennaio 1995)

Il processo Enimont durò sei mesi e terminò il 6 dicembre 1994, data dell'ultima requisitoria di Antonio Di Pietro prima dell'abbandono dell'inchiesta Mani pulite. In quell'occasione il Pm parlò delle elargizioni ai partiti per le elezioni politiche del 1992, soffermandosi in particolare su due aspetti: il contributo di 200 milioni dato da omissis alla Lega Nord e la posizione di Bettino Craxi. Si disse convinto che Bossi era perfettamente al corrente del versamento della Montedison, mentre sostenne che Craxi ricevette contribuzioni anche nel 1993 che non andarono certo al partito perchè in quel periodo non ne era più il segretario. Di Pietro spese parole dure anche per gli imprenditori "che si dicono tutti concussi ma ieri lottavano per avere l'onore di essere ricevuti e violentati. Erano tutti pronti a pagare." ("Il Giornale", 7 dicembre 1994)

Al termine della requisitoria Antonio Di Pietro rispose ai giornalisti circa l'accusa, mossagli da più parti, di non aver indagato sul Pci-Pds, a partire dal miliardo che nel '89 sarebbe stato incassato dal partito in relazione all'affare Enimont.

"Non è vero che non abbiamo indagato, come non è vero che non vogliamo indagare, è che la responsabilità penale è personale. E noi siamo arrivati fin sulla porta ma non siamo riusciti ad entrare. Se è provato che Cusani ha versato quei soldi, non è ancora stato chiarito a chi siano andati. Quando mi dicono: 'Il Pci ha preso i soldi, io rispondo: 'Pci, nato a...il...'." ("Il Giornale", 6 dicembre 1994)

Le richieste di condanna per gli imputati furono: 3 anni e 4 mesi per Bettino Craxi e Mauro Giallombardo, 3 anni e dieci milioni di multa per Giuseppe Garofano, 3 anni e 5 mesi per omissis, 5 anni per Luigi Bisignani, 2 anni per Alberto Grotti, 3 anni e 10 mesi per Arnaldo Forlani, 10 mesi per Umberto Bossi, Renato Altissimo e Alessandro Patelli, 1 anno per Gianni De Michelis e Claudio Martelli, 3 anni per D'Adamo, 11 mesi per Giorgio Casadei e Romano Venturi, 2 anni e 6 mesi per Severino Citaristi, 10 mesi per Giorgio La Malfa e Paolo Pillitteri, 2 anni per Paolo Cirino Pomicino. Otto imputati patteggiarono la pena.

C'è da ricordare che qualche imputato del processo Enimont era già stato condannato in altri processi collegati all'inchiesta Mani Pulite, tra questi troviamo Bettino Craxi e Claudio Martelli che il 29 settembre 1994 vennero condannati entrambi a 8 anni e 6 mesi, con l'interdizione a vita dai pubblici uffici e pene pecuniarie di oltre tre miliardi di lire come risarcimento danni, per il reato di concorso in bancarotta fraudolenta nel processo per il "conto Protezione" (su cui arrivarono, tra l'80 e l'81, sette milioni di dollari per il Psi che contribuirono al crac del Banco Ambrosiano).

Complessivamente Bettino Craxi è stato coinvolto in quattro processi:

a) Processo Enimont.

b) Processo ENI-SAI: con accusa di corruzione per aver incassato una tangente in merito all'accordo tra la SAI, del finanziere Salvatore Ligresti, e l'ENI per stipulare un contratto di assicurazione per tutti i dipendenti dell'ENI.

c) Processo Cariplo: con accusa di corruzione per aver incassato tangenti dalla banca che vendeva i suoi palazzi a prezzi truccati. I beneficiari diretti delle tangenti sarebbero stati la sua segretaria Enza Tomaselli e l'ex cassiere del Psi lombardo, Loris Zaffra.

d) Processo per la Metropolitana Milanese: con accusa di concorso in corruzione e violazione della legge sul finanziamento pubblico ai partiti. In questa occasione Craxi ha rifiutato il patteggiamento dichiarando di non aver commesso i reati contestategli.

In tutti i processi in questione Craxi è stato dichiarato contumace per non aver mai presenziato alle udienze.

(vedasi appendice n° 9)

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